Mappatura postazioni militari Salerno
Un progetto in continua evoluzione
Dott. Pasquale Capozzolo
Bunker, casematte, trincee, piazzole per l’artiglieria, rifugi anti aerei, caserme e casermette .. il golfo salernitano è disseminato di centinaia di strutture e postazioni militari, costruite tra il primo e il secondo conflitto mondiale dai diversi eserciti che occuparono la provincia salernitana nel secolo scorso. Come muti testimoni di un periodo storico che ha segnato il destino del nostro territorio e della nostra nazione, queste strutture spesso versano in condizioni di degrado ed abbandono. Alcune sono state demolite negli anni scorsi per far posto a nuove e più moderne costruzioni, altre riutilizzate per scopi lontani da quelli per cui furono create. Solo una decina di queste strutture hanno continuato ad assolvere al loro ruolo iniziale e restano in servizio ancora oggi.
Nel marzo del 2019 il team di ricercatori dell’Associazione Storico Culturale Avalanche 1943, diretti dal dott. Pasquale Capozzolo, in collaborazione con il museo MOA di Eboli, hanno dato il via al progetto MAPPAMI SALERNO (mappatura postazioni militari Salerno) (Fig. 1) che ha lo scopo di censire tutte le strutture di origine militare edificate sul territorio salernitano durante le due guerre mondiali. La ricerca di queste opere non è da intendersi specifica per le sole postazioni da combattimento permanenti o semi permanenti, ma comprende anche quelle strutture nate o riutilizzate per uso prettamente militare, come: aeroporti, caserme, torri d’avvistamento, depositi, rifugi, trincee, piazzole per l’artiglieria e cimiteri militari. Il censimento e il successivo studio dei dati rilevati dalla ricerca sul territorio, ha consentito ai ricercatori di avere un quadro molto dettagliato di alcune aree particolarmente interessate dall’edilizia militare della prima metà del ‘900.
Il tutto è stato possibile anche grazie alla piattaforma digitale Hetor, software messo a disposizione dal dipartimento d’informatica dell’Università degli Studi di Salerno, con il quale è stato successivamente siglato un protocollo d’intesa per lo sviluppo del Progetto MAPPAMI SALERNO.
L’utilizzo di Hetor ha consentito un innovativo e più veloce modo di interpretazione ed elaborazione dei dati, dando anche la possibilità di geolocalizzare le strutture individuate, in modo da poter individuare e valutare la distribuzione dei manufatti sul territorio salernitano.
Gli ultimi risultati hanno messo in evidenza un complesso sistema difensivo costituito da un consistente numero di postazioni di vario tipo, concentrate in tre aree poste a ridosso delle principali arterie stradali e ferroviarie che conducono alla città di Salerno. Da alcune planimetrie custodite presso l’archivio storico dell’esercito a Roma, si è riusciti a risalire al nome dei tre caposaldi: Capezzano, Santa Croce e San Liberatore. Il primo sbarrava le arterie stradali e la linea ferroviaria della valle dell’Irno, con postazioni fortificate e campali, che vanno da Capezzano a Cappelle. Il secondo controllava le strade e la ferrovia provenienti dalla zona meridionale della città, ed era compreso nell’area tra forte la Carnale e la vetta di colle Bellara. Il terzo caposaldo chiudeva la valle di Molina, partendo dalla zona di Vetranto fino alle pendici della montagna di San Liberatore. Lungo la costa ci si affidava a postazioni di tipo campale o in barbetta, a trincee e alle numerose torri costiere disseminate lungo il litorale. Questa lunga linea di difesa che partiva da Capo d’Orso e arrivava fino a Sapri, era intervallata da alcuni caposaldi costieri, che pochi giorni prima dello sbarco alleato del 9 settembre 1943, furono rafforzati dai tedeschi con altre piccole postazioni difensive. Poche le postazioni di artiglieria, quasi tutte concentrate nelle aree limitrofe della città e solo un paio alle spalle delle difese costiere. Nell’agosto del 1943 furono affiancate da alcune batterie tedesche che durante le prime fasi dello sbarco causarono molte perdite tra gli alleati[1].
La fase successiva del progetto ha portato all’individuazione delle aree in cui è possibile creare dei percorsi di turismo militare, che prevede un percorso di trekking atto a riscoprire e visitare le vecchie postazioni militari. Il 6 ottobre 2019 i soci di Avalanche 1943 hanno sperimentato con grande successo, quello che è stato battezzato con il nome di “BUNKER TOUR SALERNO” un percorso di trekking, aperto a tutti, alla riscoperta delle casematte e delle postazioni del colle Bellara[2].
In molti associano la costruzione e l’utilizzo di buona parte di queste strutture ai tedeschi, perché durante la seconda guerra mondiale, ed in particolare durante il settembre del 1943, combatterono in queste zone per contrastare lo sbarco alleato durante l’operazione Avalanche. Questa idea è corretta solo in minima parte, ma per avere un quadro generale e più dettagliato bisogna tornare ai primi decenni del ‘900, più precisamente agli anni venti, quando i sopralluoghi effettuati dallo Stato Maggiore dell’esercito italiano evidenziarono la carenza di adeguate opere atte al controllo e alla difesa delle coste nazionali. Fu deciso quindi di mettere in opera la costruzione di numerosi presidi costieri. Tali opere però non furono distribuite in modo equo e uniforme sulle coste italiane, si preferì concentrare buona parte delle strutture difensive solo nei punti e nei porti ritenuti di vitale importanza per lo svolgimento delle azioni belliche, lasciando quasi indifeso il resto delle coste nazionali. Naturalmente il golfo di Salerno non rientrava tra queste, per diversi motivi! Prima del febbraio del 1941 per la difesa, anzi per il controllo, delle coste salernitane ci si affidava a reparti territoriali che facevano capo alla Difesa del Territorio e si limitavano a un semplice servizio di vigilanza poco consistente.
A seguito della mutata situazione bellica nella zona del Mediterraneo, a partire dal 1941 la difesa costiera venne rafforzata e affidata a comandi dipendenti dallo Stato Maggiore. In quello stesso anno furono costituite grandi Unità Costiere comprendenti reggimenti di fanteria costieri e raggruppamenti di artiglieria costiera in 10 Settori Costieri di Brigata e 17 Brigate Costiere. Alla fine del 1941 si iniziarono a costituire le Divisioni Costiere, in parte utilizzando le preesistenti Brigate. Con la circolare N° 29900 del 29/03/1942 dello S.M.R.E.[3] ufficio ordinamento 2a sezione, verrà costituita e mobilitata il 15/04/1942 il Comando della 222a Divisione Costiera, agli ordini del Comandante Gen. Minaia, inquadrata nel Settore Costiero tra Capo d’Orso e la Fiumara di Castrocucco, inquadrata nella 7a Armata Campania dipendeva dal XIX Corpo d’Armata guidata dal Generale Pentimalli[4]. La Divisione al momento del suo scioglimento l’ 8/09/1943 aveva al suo comando il Generale Gonzaga del Voige con il comando di divisione a Buccoli di Conforti, luogo tristemente ricordato a causa dell’uccisione da parte dei tedeschi del Generale Ferrante Vincenzo Gonzaga del Vodice[5]. Dalla primavera del 1941 lo Stato Maggiore aveva dato il via alla elaborazione dei principi per la difesa delle frontiere marittime. Oltre ai porti, vitali per il prosieguo della guerra bisognava difendere installazioni industriali portuali, reti di collegamento e arsenali. Si trattava di un articolato programma che prevedeva anche la creazione di nuove strutture difensive, nuovi punti di osservazione e nuove batterie anti nave lungo i tratti di costa reputati più idonei ad uno sbarco nemico. I provvedimenti per il potenziamento delle difese costiere italiane cominciarono nel febbraio 1941 e vennero condotti per fasi successive, in relazione all’importanza delle singole regioni e alla graduale disponibilità di reparti e mezzi. Nel dicembre dello stesso anno iniziò il secondo potenziamento, ma a causa della scarsità di uomini e mezzi, fu attuata solo in parte. Nella primavera del 1943 la difesa costiera italiana risultava notevolmente migliorata rispetto alla situazione in cui versava all’inizio del conflitto. In questo frangente di tempo lo Stato Maggiore reputava che questa avesse una capacità offensiva capace di fronteggiare azioni di sbarco tipo Commandos, anti sabotaggio e anti paracadutisti[6]. Il programma di potenziamento non solo aumentò la capacità difensiva dei reparti, che da quel momento poterono avvalersi di nuovi punti di fuoco fortificati e campali, ma allo stesso tempo aumentò anche la loro capacità offensiva. A tutti i reparti d’Italia della difesa costiera vennero assegnate 3250 nuove armi d’accompagnamento (fucili mitragliatori, mitragliatrici e cannoni), che suddivise per i 7458 km di costa italiana, si avrà proporzionalmente un’arma ogni 2500 metri![7] Questo da un’idea come i nostri reparti costieri non fossero in grado di garantire una idonea difesa in caso di sbarchi nemici anche di entità minore.
Recenti ricerche attuate in Sicilia hanno portato alla luce oltre 1400 postazioni fortificate permanenti, poste a difesa delle coste e dell’entroterra. Considerando che l’isola ha una superficie costiera di circa 1639 km si avrà un rapporto approssimativo di circa una costruzione ogni km di costa, la regione infatti rientrava tra le quelle più difese d’Italia. Ma lo sbarco alleato del 1943 dimostrerà che questo dispiegamento di forze non era sufficiente a contrastare uno sbarco anfibio di grande portata, basti pensare che in alcune aree gli attaccanti annichilirono le piccole fortificazioni con molta facilità. C’è però da ricordare che le aree in cui queste erano disposte a caposaldi, dimostrarono una capacità offensiva tale da mettere in serie difficoltà gli attaccanti.
Il territorio italiano è disseminato di queste costruzioni, identificate erroneamente nell’immaginario collettivo come ‘bunker’, ma sono ben lontane da quelli che erano i veri bunker, strutture cioè costituite da più ambienti collegati tra loro che possono anche comprendere una o più casematte[8]. Ma qual è il termine esatto per definire queste costruzioni? Nei rapporti del 1944 depositati a Chatman e redatti dal genio militare inglese, illustrano in modo dettagliato le varie tipologie di difese edificate in Campania dagli italiani e dai tedeschi. In questi documenti vengono usati due termini per identificare le varie strutture: casemate (in italiano casematte) e pillbox. La prima si riferisce ad una costruzione o plesso di tali più sostanziosa; mentre la seconda è una costruzione mono-funzionale dalle dimensioni modeste[9]. Per comprendere meglio la differenza tra le due tipologie basterà fare riferimento alle Figg. 2 e 3. Nella Fig. 2 è raffigurato un pillbox sito a Capezzano nei pressi del fiume Irno, mentre nella Fig. 3 vediamo una casemate a difesa del posto di blocco stradale a Molina.
A differenza della terminologia inglese, la documentazione italiana le definisce tutte “postazioni”, per poi definirle ulteriormente a seconda delle loro funzioni ed equipaggiamento. Nell’area interessata dalla nostra ricerca, spesso siamo di fronte a costruzioni formate dalla sola casamatta a cui di solito era collegata una piccola camera per il ricovero della truppa. Da un punto di vista costruttivo, i cosiddetti “bunker” erano di due tipologie: postazioni pluriarma e postazione circolare monoarma. Il primo tipo (denominato anche postazione poliarma) era formato da casematte monoblocco in calcestruzzo, protette contro i tiri di piccolo o medio calibro, munite di più postazioni distinte per mitragliatrici, cannoni anticarro o fucili mitragliatori. Il secondo tipo prende la sua definizione dalla circolare 3700/S del 6 maggio 1942 e spesso identificata con la sigla P.C.M. era una piccola postazione per armi automatiche (raramente ospitava armi controcarro) protetta spesso solo dai tiri di piccolo calibro e a seconda dalla zona di utilizzo anche dai tiri di medio calibro, era munita di un numero variabile di feritoie a seconda del campo di tiro necessario all’unica arma ospitata. Oltre alle riservette per le munizioni, poteva essere presente un piccolo locale sotterraneo per il ricovero della truppa.
Le postazioni non erano tutte uguali, la loro struttura variava spesso in base a diversi fattori:
- la morfologia del terreno dove veniva edificato;
- il numero di armi che doveva ospitare;
- il tipo di armi che doveva ospitare;
- il ruolo che avrebbe dovuto svolgere;
- il raggio d’azione degli armamenti ospitati;
Il tipo PCM molto spesso manteneva per alcune sue componenti principali delle misure standard: casamatta, ricovero ed entrata. La casamatta adibita a mitragliatrice ha pianta circolare (raramente semicircolare) con un diametro esterno di 4,5 metri e pareti con spessore di 1,5 metri. La camera di combattimento con un diametro di 1,5 metri ospitava l’arma e due militari (servente all’arma e addetto alle munizioni). Il ricovero, posto al livello inferiore rispetto alla camera di combattimento, ha pianta quadrata di 2 metri per lato e tetto a volta; una scalinata larga meno di un metro porta al livello superiore. Il alcune strutture i due ambienti sono collegati da una apertura nel pavimento della casamatta per consentire il passaggio delle munizioni; un esempio lo ritroviamo in una P.C.M. collocata nella parte orientale del caposaldo di Capezzano (Fig.4). Le feritoie per il tiro dell’arma, solitamente 4 distribuite a 360 gradi, hanno altezza e larghezza che variano in base al settore da difendere e all’angolo di tiro dell’arma; una della quattro ha un’apertura maggiorata per consentire la fuga degli occupanti in caso di necessità. Non mancano esempi in cui questi PCM non rispondono ai requisiti sopra citati, un esempio è presente a Policastro Bussentino, in questo caso risulta essere più piccola di circa un metro, con spessore delle pareti inferiore al mezzo metro e non presenta alcun ricovero sotterraneo per la truppa (Fig. 5).
All’atto della costruzione la morfologia del territorio svolgeva un ruolo fondamentale, in base a questo sarebbe stato deciso il punto dove collocare l’ingresso, il ricovero per la truppa (se prevista), il raggio d’azione dell’arma o delle armi. Una volta definito il progetto e preparato il terreno, veniva preparato lo scheletro in metallo, che avrebbe costituito l’ossatura della costruzione e la sagoma in legno dove verrà fatta l’unica gettata di cemento, quest’ultimo doveva essere preparato secondo specifiche direttive dettate dal Genio militare. Una volta asciugato il cemento armato e smontato lo stampo si procedeva al mascheramento dell’opera.
Questo poteva essere effettuato in diversi modi:
- per verniciatura: le parti della costruzione non interrate venivano dipinte con uno schema mimetico a più colori, solitamente verde e marrone;
- utilizzando reti mimetiche in metallo o corda con l’aggiunta di elementi di vegetazione o stoffa;
- con terra, pietrame e piante;
- costruendo vicino le pareti o sul tetto elementi architettonici che ne nascondessero la forma.
Il concetto di mascheramento di un’opera viene approfondito in un allegato alla circolare 800 del 5 marzo 1931, redatto dal comando del Corpo di Stato Maggiore, dove vengono spiegate le basi per il mascheramento delle postazioni difensive.
La costruzione di queste opere spesso non sempre era effettuata dal Genio Militare, non di rado si affidavano i lavori a ditte civili, che venivano scelte dal ministero della Guerra con una gara d’appalto tramite invito formale ad almeno otto imprese di fiducia. La gara si svolgeva con prova unica a offerte segrete e il verdetto era proclamato in ‘seduta stante’ a favore di chi presentava la migliore offerta sulla base dei prezzi di capitolato. Non era raro che le Superiori Autorità evitavano perdite di tempo affidando direttamente il lavoro a una precisa impresa di fiducia, tramite trattativa privata[10]. Il ritrovamento fortuito di uno stemma del Genio Militare scolpito nella roccia di un rifugio anti aereo nella zona di Molina ha attribuito la costruzione delle postazioni salernitane alla 106a compagnia del Genio Lavoratori, che dipendeva dal comando della Difesa Territoriale di Napoli (Fig. 6).
Casi particolari sono invece le postazioni in caverna che potevano essere di diverso tipo: monoarma, pluriarma, rifugi, postazioni comando o punti di osservazione. Anche in questo caso la morfologia territoriale costituiva un fattore fondamentale al momento della costruzione. I progettisti cercavano di sfruttare nel miglior modo possibile la copertura offerta dalle rocce edificando spesso solo nelle zone interessate dagli accessi e dai punti di fuoco. L’ingresso veniva adeguato allo scopo a cui era destinata la caverna, costruendo mura in cemento o pietre, quando l’accesso era troppo grande o semplicemente rifinendolo con materiale edile, qualora le dimensioni erano già adeguate.
Le dimensioni degli spazi variavano molto in base alla forma originaria dell’anfratto, in alcuni casi troviamo anche la creazione di solai per rendere il manufatto a più livelli. Se necessario si provvedeva a modificare gli spazzi interni per adattarli ai supporti per le armi che avrebbero ospitato, e ad asportare il materiale in eccesso livellandone pavimenti e pareti con cemento e creando supporti in pietra o cemento. Non di rado le postazioni in caverna per uso difensivo, hanno le casematte in cemento armato, con dimensioni simili ai P.C.M. a pianta circolare edificate esternamente alla grotta; in alcuni casi al posto della casamatta presentano la postazione per arma in barbetta, un esempio lo abbiamo a Molina nei pressi della linea ferroviaria (Fig.7).
Le postazioni in barbetta differivano molto dalle solite casematte, perché l’arma non era al chiuso ma all’aperto, e l’unica protezione per i serventi era data da un semplice muretto in pietra o cemento. Un esempio lo possiamo ritrovare nella postazione sulla spiaggia in località Licinela a Capaccio, oltre alla postazione in barbetta per mitragliatrice la struttura era dotata anche di due ricoveri interrati per la truppa (Fig. 8).
Il riutilizzo delle antiche torri d’avvistamento costiere e di molti antichi castelli era molto frequente. Posizionati in punti strategici per il controllo territoriale, trovavano posto nelle difese territoriali e costiere come punti di osservazione, e in caso di necessità svolgevano egregiamente anche il ruolo di postazione difensiva. La torre Licinella sul litorale di Paestum, giocò un ruolo di vitale importanza nelle prime fasi dello sbarco americano nella notte tra l’8 e il 9 settembre 1943[11]. Sono stati rilevati in diverse strutture dei lavori di restauro e ammodernamento, per adeguare le vecchie fortificazioni all’utilizzo delle armi moderne, soprattutto quando dovevano ospitare dei pezzi di artiglieria. Il forte la Carnale a Salerno è un ottimo esempio di come un’antica torre cavallara poteva trasformarsi in una moderna roccaforte dotata di una batteria di tre cannoni da 75mm prolungati[12] (Fig.9), 2 camere per le munizioni con pareti in cemento armato, 2 P.C.M. per mitragliatrice, una postazione per mitragliatrice in caverna (Fig. 10), una postazione fortificata scoperta per mitragliera antiaerea.
Queste sono solo alcune delle tipologie di opere militari presenti sul territorio, altri manufatti di più piccola entità sono spesso nascosti alla vista, e di quelli rimossi negli anni passati ne resta spesso solo un ricordo sfuocato nelle menti degli anziani. I risultati di questa capillare ricerca, che non può dirsi ancora conclusa, saranno a breve raccolti in una pubblicazione che esaminerà in dettaglio le varie opere militari del territorio salernitano.
[1] A. PESCE, Salerno 1943 “Operation Avalanche”, 1993, Napoli, p. 29, 32.
[2] Collina conosciuta dai salernitani come Masso della Signora.
[3] Stato Maggiore Regio Esercito.
[4] <http://www.regioesercito.it/reparti/fanteria/refantcost2.htm> (ultima consultazione 3.11.2019).
[5] G. D’ANGELO, La forma dell’acqua. La lenta transizione del fascismo a Salerno capitale, Mercato S. Severino, 2012, p. 120.
[6] M. BOGLIONE, L’Italia murata. Bunker, linee fortificate e sistemi difensivi dagli anni trenta al secondo dopoguerra, Torino, 2012, p. 171.
[7] M. BOGLIONE, L’Italia murata, cit. [6] p.172.
[8] <https://it.wikipedia.org/wiki/Casamatta> (ultima consultazione 3.11.2019).
[9] S. POCOCK, Paesaggi perduti. Lost landscapes. Campania 1943, 2011, Napoli, p. 9.
[10] M. BOGLIONE, L’Italia murata, cit. [6] p. 27.
[11] A. PESCE, Salerno 1943, cit. [1], p. 29.
[12] F. DENTONI LITTA, Guerra a Salerno, a cura di Pietro De Rosa, 1998, Edizioni Grafica Mediterranea, p. 37.